A volte mi capita di rivivere nella mia testa vecchie discussioni. Momenti di conflitto o di disaccordo con altre persone in cui avrei voluto comportarmi diversamente, non necessariamente per cambiare i risultati o quello che è venuto dopo, ma piuttosto per rivendicarmi.
Mi è capitato spesso di tornare sempre alle stesse situazioni con le stesse persone, in alcuni casi si tratta di lavoro, in altri di relazioni interpersonali. Ma continuo a tornare sulle stesse cose, come se qualcosa ancora non quadrasse. Allora ripeto queste discussioni simulando risposte diverse da parte mia.
Credo che, almeno in parte, la mia mente proponga naturalmente questo tipo di operazioni come elaborazione ed eventuale riprogrammazione dei fatti: mi aiutano infatti a prendere consapevolezza di ciò che avrei davvero voluto dire in quei momenti in cui non ho prestato abbastanza attenzione a me stesso o comunque non mi sono ascoltato. Soltanto che, occasionalmente, da questo esercizio finisco per rimanere lì a rimuginare. Genero una serie di controargomentazioni come se tutto si svolgesse davanti a una specie di tribunale mentale. Un tribunale incaricato di emettere un verdetto morale assoluto, capace di vedere e comprendere le ragioni di entrambe le parti e tutte le loro sfumature, e allo stesso tempo capace di distinguere tra corretto e sbagliato, tra giusto e ingiusto.
Ed è proprio questa grande capacità del tribunale che trasforma quello che era partito come un esercizio di assimilazione in una simulazione ciclica e infinita, come una torre a spirale con infiniti gradini che non conosce né gravità né limite, un loop che si ripete camuffandosi di empatia e leggerissime variazioni. Possono passare ore in un dibattito mentale, io contro una rappresentazione di chi ora considero un avversario. Riproducendo nella mia testa quella battaglia in cui allora mi sono sentito sconfitto e che ancora oggi genera in me rabbia o rancore, amarezza e una viscerale fame di Giustizia.
C’è chi mi ha suggerito, parlando di queste occasioni e del mio desiderio di liberazione, di affrontare il perdono: perdonare le persone che mi hanno aggredito, o da cui mi sono sentito aggredito, e perdonare me stesso. Capire che ognunə agisce nel modo che ritiene migliore – secondo i propri interessi e le proprie priorità – e cercare di andare alla radice del motivo per cui mi sono messo in quella situazione, permettendo a una persona di comportarsi con me in un certo modo e persino di reiterare quel comportamento.
Altre persone, invece, mi hanno invitato a dare spazio a tutto ciò che sentivo e a tutto ciò che avrei voluto dire, gridare o piangere. Che si trattasse di scrivere lettere senza alcun filtro, lettere che poi ovviamente avrei bruciato o seppellito a terra, o di permettere al mio corpo di sfogarsi fisicamente colpendo un cuscino o un materasso, scuotendomi e tremando, o addirittura schiacciando un frutto con addosso la foto dell’altra persona.
Sì, ci sono moltissime possibilità.
E in tutte queste possibilità sento che, per me, mancava qualcosa di fondamentale. Doveva mancare necessariamente qualcosa perché, sebbene l’aver messo in pratica tutti i consigli ricevuti mi avesse aiutato a diventare più consapevole e a sentirmi più sereno, l’infinito dibattito continuava a ripresentarsi nella mia testa.
Finché un giorno…
No. Era notte quando ho avvertito una realizzazione e sono stato franco con me stesso.
Con difficoltà sono riuscito ad ammettere che quel tribunale ero io, e questa è stata la chiave. Nel momento in cui mi sono permesso di riconoscermi in quel tribunale immaginario, è sorta spontanea la domanda: perché sto cercando di convincere o persuadere me stesso?
E, allora, la domanda stessa si è rivelata e sviluppata man mano da sola:
Perché mi sto giustificando con me stesso?
Perché ritengo che ci sia qualcosa da giustificare?
Perché do ragione ai miei avversari o considero scenari in cui dar loro ragione?
Io stesso non ero d’accordo con me stesso. Non mi sono ascoltato quando ho vissuto davvero ognuna di queste avversità e discussioni. Molte volte ho nascosto o edulcorato ciò che pensavo o sentivo veramente, o sono rimasto in situazioni che andavano contro i miei valori e dentro a contesti in cui non volevo stare. Anche in questo caso, con il mio tribunale, cadevo nello stesso tranello. In queste simulazioni stavo invalidando la mia voce e le mie azioni a favore di una verità oggettiva, vale a dire una legittimazione esterna. Continuavo a rivivere quelle scene, modificando i dialoghi, alterando certe reazioni, come per convincere me stesso, la mia autorità, che ciò che volevo dire o fare era oggettivamente giustificato. Anche se mentalmente, concettualmente, sapevo che non esiste una verità assoluta o un Bene e un Male universali, per molto tempo ho cercato un verdetto indiscutibile. Inconsciamente desideravo un giudizio finale di fronte ai miei dilemmi passati, una ragione totalitaria a sostegno dei miei motivi.
Ma, appunto, i miei motivi sono e saranno sempre soltanto miei. Finché la vita implica trasformazione, la coesistenza implicherà contrasto e differenza senza offrire una spiegazione per essere ciò che è.
Forse è bene definire e accogliere i propri interessi e le proprie priorità, con consapevolezza e passione, e smettere di condannare gli altri per fare la stessa cosa. Troveremo sempre chi non condivide la nostra visione del mondo, anche chi percepisce e sente in modo diverso. Ma continuare a discutere mentalmente con fantasmi, paralizzare la propria vita per i residui di ciò che è stato, in nome dello spettro della Giustizia, è inutile ed estenuante solo per chi lo pratica. Quella stessa energia, quel tempo, quel sentimento possono essere meglio incanalati ridendo o riflettendo concretamente come cambiare una situazione attuale, o in qualsiasi altra attività, che sia per esempio la lettura di un articolo in un blog casuale su Internet in cui lascio un commento casuale e che condivido casualmente con i miei contatti. Esempio totalmente casuale.
Questo non significa che il senso di incompatibilità o i problemi che sorgono insieme alla difficoltà di comunicare e di relazionarsi non siano frustranti. Né significa astenersi dal considerare lə altrə, compreso chi pensa e sente in modo diverso. Cercare il dialogo e le occasioni di lavorare in squadra è bello, così come la consapevolezza che, pur essendo collegati in spirito e altri corpi sottili, non sempre andremo d’accordo.
Questo è solo un invito ad ascoltare la tua voce senza bisogno di scuse o giustificazioni, senza pregiudizi o echi di un’autorità esterna, senza dover rendere conti a un concetto di Giustizia altrui. E a ricordare che anche il conflitto e il combattimento sono belli, ma questa è una storia per un altro giorno.