Per me, una delle cose più attraenti di un oggetto è il suo potenziale di personalizzazione. Ho sempre amato la possibilità di modificare qualcosa a mio piacimento, non importa quale cosa: da bambino modificavo i videogiochi, alterando i personaggi e le storie, nell’adolescenza era lo stesso con i miei vestiti, cucendo e tagliando gli abiti o addirittura disegnando o scrivendo su di essi. In qualche modo questo faceva sentire l’oggetto più mio, ovviamente, perché diventava improvvisamente unico. Inoltre, l’oggetto sembrava acquisire più vita, come se l’esperienza della modifica fosse diventata una memoria condivisa tra me e l’oggetto stesso. Come se fosse un processo che abbiamo vissuto insieme.
La personalizzazione è qualcosa che piace a tuttə noi, perché ci permette di stabilire quei rapporti particolari, talvolta strani, con le proprie cose o esperienze. È un modo per dare spazio a certi aspetti della nostra intimità, a quei pensieri strambi o a quelle innocenti fissazioni che abbiamo. Soprattutto, è un modo affinché qualcosa, come un oggetto o un prodotto, vada oltre e acquisisca un nuovo valore. È anche una forma per esprimere sé stessə e quindi per conoscere ed esplorare la propria identità, per plasmarla ed espanderla se si vuole. Lo vediamo più facilmente con la moda e i vestiti che indossiamo, con i nostri accessori, con le immagini profilo sui nostri canali social, con la cover del nostro cellulare e con il modello del cellulare stesso, con l’immagine di sfondo dei nostri schermi e persino con la decorazione di casa.
Godiamo di quelle occasioni in cui possiamo sentirci unicə, godiamo della compagnia di quelle persone che non ci vedono come tuttə lə altrə e che ci conoscono e ci ascoltano davvero, gioiamo quando ci viene riconosciuto un compito che abbiamo svolto bene e che, forse, nessun altrə avrebbe potuto portare a termine. Allo stesso tempo, troviamo estremamente difficile allontanarci dal gregge, e intendo dire prendere veramente una strada diversa. L’ironia è bella e, talvolta, crudele. Ci piace viaggiare, conoscere nuove persone e culture diverse, ma non sia mai che si esagera con usanze che possano sembrarci estreme, grottesche o addirittura disumane!
Ci piace essere consideratə unicə, ma non al punto di sembrare stranə. Quasi come se volessimo essere gli esseri più speciali all’interno dei parametri stabiliti dalla comunità, dalla società, dalla famiglia o dal gruppo di amici. Questi parametri possono essere estetici, su come si appare o come ci si veste, possono essere etici o morali in relazione alla legislazione, alla religione o alle credenze popolari, e possono toccare il nostro stile di vita fino in fondo proponendo, ad esempio, il culto al lavoro o la socialità espansiva come sinonimo di un essere realizzato e funzionante.
Il problema non è naturalmente l’esistenza del gruppo, né i valori o i parametri che esso propone. Il problema sono la pigrizia e l’incoscienza che ti conducono su un sentiero altrui, un sentiero tracciato o indicato da altre persone e che, se sei guidatə dalla paura di trasgredire i suoi limiti, porta a una profonda insoddisfazione. A quell’irrequietezza e a quel vuoto che a volte si sente nel petto, a quella sensazione di cercare qualcosa senza sapere esattamente cosa. Quello che ti fa dubitare un po’ di tutto ciò che hai raggiunto nella vita, di dove sei in questo momento o addirittura di chi sei. È lo stesso motivo per cui spesso reagisci in modo automatico, anche se non ti piace né concordi con il modo in cui reagisci. Ti è mai capitato?
Il primo passo verso una strada diversa è fare scelte consapevoli e radicate nel presente. Non per principio, non perché sì, non perché tanto è abbastanza uguale o tanto male non fa. Questo è il primo sforzo, e deve essere costante. Posso convincerti mentalmente che, alla fine, non esiste un vero errore o fallimento nella vita. Entrambi sono concetti comparativi che dipendono da standard e obiettivi esterni. Ma a me interessa scuoterti e portarti ad agire: sono le decisioni, le azioni e le esperienze che ci fanno cambiare davvero, perché ci fanno vivere. Ora pensa, per favore, a tre cose che avresti voluto fare nella vita e che non hai fatto, forse perché erano fuori dall’ordinario. Pensa seriamente alla cosa peggiore che potrebbe accadere se tu facessi queste cose e valuta concretamente se vale la pena continuare a procrastinare.
Adesso vai, impazzisci, esplodi o implodi, sii la tua sfrenata e amorevole passione.
Vorrei ora, prima di concludere, condividere con te la poesia che mi ha mosso e guidato nella stesura di questo articolo:
Divergevano due strade in un bosco
ingiallito, e spiacente di non poterle fare
entrambe uno restando, a lungo mi fermai
una di esse finché potevo scrutando
là dove in mezzo agli arbusti svoltava.
Poi presi l’altra, così com’era,
che aveva forse i titoli migliori,
perché era erbosa e non portava segni;
benché, in fondo, il passar della gente
le avesse invero segnate più o meno lo stesso,
perché nessuna in quella mattina mostrava
sui fili d’erba l’impronta nera d’un passo.
Oh, quell’altra lasciavo a un altro giorno!
Pure, sapendo bene che strada porta a strada,
dubitavo se mai sarei tornato.
lo dovrò dire questo con un sospiro
in qualche posto fra molto molto tempo:
Divergevano due strade in un bosco, ed io…
io presi la meno battuta,
e di qui tutta la differenza è venuta.
La strada non presa, di Robert Frost, dalla raccolta Mountain Interval (1916)
Prendere la strada meno battuta richiede un certo sforzo, lo sforzo di essere e rimanere presenti per scegliere con consapevolezza, in modo che la vita non sia qualcosa che ci capita. Alla fine, è questo che fa tutta la differenza.
Fino a che punto pensi di inibirti, seguendo un flusso inconscio, credenze e principi altrui, zone apparentemente sicure?
Fino a che punto arriverai prima di prendere una scelta consapevole e fare la differenza, la tua differenza?
In che momento decidi che tu meriti e vali tutto quello sforzo?
1 commento su “La strada non presa”
Temi, ad oggi, a me molto cari. Un commento a caldo: la nostra generazione è portata a confrontarsi molto col tema dell’identità. Spesso ci definiamo sulla base di “cosa facciamo” senza considerare di avere un valore che prescinde da ciò che facciamo e che sicuramente contribuisce a definirci in un certo tipo di carattere, ma che non può e non deve essere totalizzante. È spinoso e complesso, in una società dove la narrativa della performance viene messa in primo piano, riuscire a rimanere in linea e in ascolto di quelli che sono i nostri bisogni e quindi, di conseguenza, di quella che sentiamo essere la strada giusta per noi. Non è banale, ma è sicuramente importante poter coltivare la capacità di mantenere un certo tipo di onestà intellettuale nei confronti, in primis, di noi stessi. Ad ogni modo, un articolo interessante che pone al centro una questione che trovo impellente e attualissima.
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